<p>Alcuni anni fa, scrissi un documento dal titolo “Diventare dialogici: psicoterapia o un modo di vivere?”, che fu pubblicato sull’Australian and New Zealand Journal of Marital and Family Therapy (Seikkula, 2011). L’idea, come indica il titolo, era quella di descrivere la mia storia professionale. Sono molto grato al redattore per avermi chiesto di scriverlo, perché altrimenti non avrei mai pensato di redigere un simile riassunto dello sviluppo clinico dalla pratica sistemica a quella dialogica. Il mio documento terminava con queste frasi:</p>
“Ho descritto alcuni passaggi importanti del mio percorso che mi ha condotto a un modo di vita dialogico in ambito professionale. Come ho detto all’inizio, mi sento a disagio nel definire ciò come un metodo terapeutico, ma allo stesso tempo (come si è visto nei due brevi episodi di psicoterapia), un modo di vita dialogico rispecchia un’enfasi specifica nel condurre le conversazioni terapeutiche. Uno dei principali messaggi è rappresentato dai possenti esiti dimostrati in molti studi che verificano un focus sulla proliferazione dei dialoghi in ambiti dai molti protagonisti, che spinge i clienti a usare le proprie risorse”.
Dopo aver aperto la porta per la prima volta ai dialoghi aperti a metà degli anni Ottanta, il culmine dell’attenzione era quasi tutto rivolto ai dialoghi parlati, compresa l’importanza del saper rispondere. Più tardi, tuttavia, scostarsi dal contesto psichiatrico ha significato vedere la qualità incarnata della nostra presenza polifonica come più importante delle narrazioni riferite durante le sedute. Per me questo ha anche voluto significare un mio maggior interesse nella qualità intersoggettiva della vita umana nel suo insieme. Come persone viventi noi siamo esseri relazionali; nasciamo nelle relazioni e tutte le altre in cui viviamo si incarnano nella struttura dei nostri corpi viventi (il che ci aiuta a capire la semplicità dell’acquisizione del potere dialogico). Nulla è più necessario che essere uditi e presi seriamente, ed è questo che dà origine a una relazione dialogica. E quando, dopo una crisi, ritorniamo nuovamente alle relazioni dialogiche, il compito terapeutico è assolto, perché si riconquista la mediazione.
Così la sfida in qualsiasi tipo di supporto psicologico è di abbandonare i nostri scopi di produrre un cambiamento nei nostri clienti attraverso i nostri interventi. Come professionisti, dovremmo imparare a seguire il modo di vita e il linguaggio dei nostri clienti, interamente e senza preconcetti. Questo non è facile. Ma questa è la sfida per quel che mi riguarda. In uno dei più recenti tentativi di aiutare i terapeuti a fare solo questo, abbiamo sviluppato metodi dialogici specifici per considerare eventi reattivi nei dialoghi dai molteplici attori (Seikkula, Laitila, & Rober, 2011). Alla fine, imparare il modo dialogico della vita professionale è un lavoro pragmatico. In questo metodo di inchieste dialogiche, lo scopo è osservare soprattutto le reazioni, perché il dialogo si genera nel modo in cui noi reagiamo a vicenda.
Il paradosso del dialogo può risiedere nella sua semplicità e nella sua complessità nell’insieme. E’ facile come la vita, ma allo stesso tempo il dialogo è tanto complicato e difficile quanto può esserlo la vita stessa. Ma il dialogo è qualcosa cui non possiamo sfuggire, è lì come il respiro, il lavoro, l’amore, gli hobby o guidare un’auto. E’ la vita. Come ultima voce, cito Mikhail Bakhtin (1984):
“…la vita umana autentica è il dialogo a risposta libera. La vita è per sua stessa natura dialogica. Vivere vuol dire partecipare al dialogo, fare domande, prestare attenzione, rispondere, concordare e così via. In questo dialogo, una persona partecipa appieno e per tutta la sua vita: con gli occhi, le labbra, le mani, l’anima, lo spirito, tutto il corpo e azioni. Investe l’intero suo sé nel discorso, e questo discorso permea il tessuto della vita umana e il simposio del mondo” (p. 293).
Sviluppi istituzionali e costituzionali
Voglio che la nota finale del documento di Bakhtin sia il punto di partenza di questo mio scritto. Dal 2011 abbiamo visto un aumento senza precedenti di sviluppi positivi rispetto all’Open Dialogue. Una di queste pietre miliari è stata la formazione di Open Dialogue UK, che ha iniziato a organizzare, tra varie altre cose, l’intera formazione triennale al Dialogo Aperto per professionisti. Questa è la primissima volta che questo programma educativo viene svolto fuori dalla Finlandia. In Finlandia questo programma è accreditato come formazione in terapia familiare, di modo che i professionisti vengano riconosciuti come psicoterapeuti secondo la legge finlandese. Nel Regno Unito è direttamente denominato come corso formativo di “Open Dialogue”, con un’enfasi sullo sviluppo dei servizi di salute mentale.
Contemporaneamente è emersa una rete di programmi di formazione a livello base in diversi Paesi per presentare sia agli operatori sia a un sempre maggior numero di utenti dei servizi gli elementi fondamentali della pratica dell’Open Dialogue. Progetti molto significativi sono stati avviati nel Regno Unito e in Italia dove, insieme ai programmi di formazione realizzati presso molte fondazioni della salute mentale (Regno Unito) e a livello provinciale (Italia), sono in via di costituzione piani adeguati di ricerca. Questo per me è l’avverarsi delle mie politiche personali, che sinora avevano teso ad essere sogni piuttosto irrealizzabili.
Dopo oltre 30 anni di lavoro per sviluppare pratiche dialogiche mi sono convinto che senza i seguenti elementi non è possibile ottenere alcun cambiamento permanente nella direzione dei servizi di salute mentale più umanitari:
- Linee guida semplici per la nuova pratica clinica. Uno degli esempi di questo sono i sette principi di base per il Dialogo Aperto emersi dalla nostra ricerca nella Lapponia Occidentale per determinare gli elementi ottimali della miglior cura possibile delle crisi psicotiche (Aaltonen et al., 2011).
- Formazione continua degli operatori che stanno per iniziare pratiche più impegnative di quelle svolte in precedenza. Come ho già citato, è una sfida adottare le pratiche dialogiche, e senza una formazione sistematica delle nostre abilità questo compito è del tutto impossibile.
- La capacità delle organizzazioni di valutare le proprie pratiche usando metodi scientifici. Se le nostre organizzazioni non valutano le loro pratiche iniziando con dei semplici monitoraggi, aggiungendo descrizioni dei processi terapeutici e nel caso intraprendendo progetti di ricerca più approfonditi (come avviene in Regno Unito, Italia e Stati Uniti), lasceremo campo libero a coloro i quali si impegnano in ricerche con un focus più accademico, ossia che con maggior facilità tende a sopravvalutare i risultati da laboratorio e che quindi non sono valide per la pratica clinica.
Mi rendo conto che passo per passo tutti questi elementi necessari stanno per radicarsi come parte dello sviluppo di pratiche dialogiche e dialoghi aperti.
L’Open Dialogue si va incarnando
Una recente e ispirante innovazione dello sviluppo della pratica dialogica e della sua ricerca è una crescente focalizzazione sull’essere umano incarnato. Come dichiarato nella suddetta citazione di Mikhail Bakhtin, gli umani partecipano al dialogo con tutti i loro atti e col corpo intero. Essendo io responsabile del progetto di ricerca sulla Mente Relazionale (Seikkula et al., 2015; Karvonen et al., 2016), mi eccita la possibilità di iniziare a seguire i processi della terapia dialogica dal vivo, compresa l’indagine sulle reazioni corporee che i partecipanti si scambiano a vicenda nel dialogo. Questo è uno sviluppo molto naturale del Dialogo Aperto, e in realtà a mio modo di vedere si tratta della visione dialogica della vita che ha reso possibile costruire un progetto in cui la corrente della vita (William James, 1890) possa essere seguita nel suo fluire reale.
Questa ricerca è anche notevole per la nostra comprensione delle pratiche dialogiche, che ora stanno oltrepassando l’idea sociale linguistica e costruttivista della realtà. Vedere le nostre realtà costruite in base alla descrizione linguistica tra i partecipanti al dialogo è stata una fase della comprensione dei processi dialogici, ma chiaramente si trattava solo di una metà della verità (se esiste una “verità”), dimenticando la partecipazione incarnata di ciascun interlocutore del dialogo. La partecipazione incarnata costruisce la realtà attuale almeno tanto quanto la sua descrizione linguistica. Nel progetto Mente Relazionale abbiamo osservato alcuni importanti fenomeni che occorre adottare nella nostra pratica di terapia dialogica. Ad esempio, abbiamo notato che una terapeuta può essere sincronizzata nei suoi movimenti corporei con un cliente mentre allo stesso tempo è in sintonia con le sue espressioni facciali con un altro cliente, mentre un secondo terapeuta può dimostrare una forte sincronia a livello de l Sistema Nervoso Simpatico (SNS) con un cliente mentre l’altro terapeuta mostra una o sincronia SNS con l’altro cliente (Seikkula et al., 2015). Ciò significa che un momento di sincronia osservabile di un’interazione visibile non verbale e nel Sistema Nervoso Autonomo (SNA) può essere vissuto e interpretato in maniera diversa dai partecipanti al dialogo. Inoltre, ci siamo accorti che la sintonia (osservata ad es. grazie alle espressioni facciali) viene spesso percepita come un fenomeno positivo, ma essa può anche dar luogo a reazioni emozionali negative per alcune persone e in alcuni contesti.
Nella nostra ricerca, i terapeuti hanno dimostrato la loro maggior sincronizzazione tra di loro. I coniugi inizialmente avevano una sincronizzazione più debole, ma i loro movimenti, posture e gesti la Variabilità della Frequenza Cardiaca (VFC) era inferiore durante gli interventi vocali degli altri partecipanti, indicando il più alto limite di tensione. Il nostro lavoro sulla sincronia verbale indica che, oltre al contenuto del dialogo, le modalità del sentirsi coinvolti nel dialogo sono cruciali nei processi di interazione e condivisione. Più in particolare, i cambiamenti della prosodia del discorso si sono rivelati un fattore importante del processo terapeutico. Ad esempio, attenuando il tono di voce e lasciando attimi di silenzio tra parole e frasi, i terapeuti possono incoraggiare i pazienti a condividere e discutere emotivamente gli argomenti critici, dando espressione ad esperienze per le quali potevano non aver parole adeguate per descriverle prima della seduta (Kykyri et al., in stampa). Sembra anche che le variazioni del respiro siano correlate con l’identificazione e l’analisi di momenti silenti nel discorso, cosicché i cambiamenti della respirazione regolano il comportamento di ciascun partecipante alla conversazione (Itävuori et al., 2016).
Incorporare queste nozioni nella nostra pratica sarà una delle prossime importanti sfide. Una conseguenza è stata una maggior enfasi sull’importanza della presenza affettiva. Percepire e sentire affetto è un modo di essere in dialogo. Spesso non c’è un effettivo bisogno di formulare un’eccitazione affettiva in un significato linguistico, ma piuttosto la condivisione della reazione affettiva può essere un fattore molto curativo che sentiamo il bisogno di capire meglio. Se questo accadesse, con un po’ di sorpresa gli uomini possono trarre beneficio dalla psicoterapia molto più di quanto si potesse pensare. Nelle sessioni di terapia dialogica gli uomini sono spesso fortemente coinvolti nella loro eccitazione affettiva (ad es. possono commuoversi emotivamente o aver voglia di piangere, ma lottano per riflettere sulla loro esperienza attraverso le parole). Abbiamo visto che in qualche caso condividere l’esperienza di un po’ di affetto è sufficiente per il cambiamento nel momento reale.
Forse un modo per procedere è quello di incominciare a raccogliere esempi clinici di situazioni di eccitazione affettiva in sede di incontri dialogici e pensare alle esperienze positive e meno positive. Sappiamo che ci sono modi validi di gestire le emozioni, come dimostrano la terapia focalizzata sull’emozione (EFT), la terapia di coppia e le pratiche di “mindfulness”, ma la pratica dialogica è diversa da tutte queste altre forme di terapia. E’ importante soprattutto il rispetto verso chi sta parlando, incondizionatamente. Chi parla è colui o colei che ci guida oltre nel panorama affettivo. Sia nell’EFT e in parte anche nella “mindfulness” i terapeuti di ripetizione hanno un ruolo forte che implica sempre qualche rischio di manipolazione dell’esperienza emozionale. Questa è una cosa che non mi fa sentire a mio agio, quindi piuttosto voglio sviluppare modi che procedono seguendo il ritmo dei nostri clienti, dato che il dialogo è sull’insieme.
L’Open Dialogue diventa globale
Il secondo grande evento verificatosi ultimamente sono le iniziative di grandi progetti di ricerca legati allo sviluppo dei servizi basati sul Dialogo Aperto o sulla pratica dialogica più in generale. Mentre scrivo, tali piani stanno procedendo presso sei fondazioni della salute mentale in Regno Unito e ad Atlanta negli Stati Uniti. Anche nel vasto programma formativo in Italia sono emersi piani di ricerca sulla nuova pratica, focalizzati sul modo in cui essa si rapporta al tipo di cure consuete nel contesto di quel Paese. Almeno per quanto riguarda il Regno Unito e il progetto statunitense un’area di interesse particolare sarà, se realizzata, l’esito della cura delle crisi in generale senza alcun criterio diagnostico di inclusione predefinito. Nel Regno Unito ci sarà una randomizzazione di équipe al lavoro in aree specifiche per capire se l’approccio del Dialogo Aperto produrrà esiti migliori nelle crisi rispetto alle cure tradizionali. Ad Atlanta, ci si concentrerà sui pazienti psicotici di primo episodio. In entrambi questi progetti tutto (nella prassi clinica quotidiana, senza cambiarla per rendere possibile la ricerca), il che è il mio ideale di effettuare ricerche che abbiano una buona validità esteriore. Come abbiamo visto negli studi di monitoraggio di pazienti psicotici della Lapponia Occidentale, i risultati non scompaiono in un periodo di 10 anni (poiché erano all’incirca gli stessi pazienti in due studi condotti a 10 anni di distanza l’uno dall’altro) – (Seikkula et al., 2011).
Questo è un fatto notevole, paragonato a esperimenti empirici randomizzati, in cui circa il 20% dell’efficacia va perduta mentre si cerca di adottare l’approccio alla prassi clinica quotidiana nel mondo reale. In realtà questa nozione è un’innovazione scientifica extra che abbiamo verificato attraverso la ricerca sul Dialogo Aperto, qualcosa che non è risultata come verificata in molti altri studi. Si tratta di un elemento importante da realizzare anche per le persone che lavorano nel campo dialogico. Nello stesso modo che nei campi della psicoterapia e della terapia familiare, la resistenza può facilmente emergere contro la ricerca, o forse contro la ricerca sull’efficacia del lavoro clinico. Per me tale resistenza va ad agire in realtà contro lo sviluppo di pratiche più umanitarie, poiché lascia il campo aperto a tipi di esperimenti da laboratorio conservativi, nei quali i pazienti possono essere oggettivati attraverso l’analisi dei loro sintomi e le pratiche possono essere manualizzate in maniera rigida per rendere possibile la ricerca. Stiamo parlando qui di modi completamente differenti di fare ricerche (sull’efficacia) in ambiti naturalistici, e come abbiamo già visto questa ricerca contribuisce con informazioni valide alla pratica clinica quotidiana.
La vita dopo 20 anni di Dialogo Aperto
Nella Lapponia Occidentale l’interesse per la ricerca non si è arrestato. Questa provincia è uno straordinario esempio di quanto sia importante la ricerca in corso per lo sviluppo dei servizi di salute mentale e anche di altre pratiche cliniche. Io stesso ho condotto molti studi sul sistema psichiatrico locale, sul Dialogo Aperto e sui dialoghi sicoterapia. I miei studi consistono sia in analisi sull’efficacia dell’approccio sia in altre analisi dialogiche o qualitative. Inoltre molti altri, come il primario di psichiatria Jyrki Keränen (1992), lo psicologo Kauko Haarakangas (1997) e la primaria di psichiatria Birgitta Alakare sono stati attivi nel campo della ricerca. La ricerca a livello locale è stata sostenuta dall’Università di Jyväskylä e in particolare in molte occasioni dal professor Jukka Aaltonen.
Note conclusive
Come possiamo vedere, ci sono parecchi interessanti progetti in corso in molti campi: nella nuova pratica clinica, nello sviluppo di programmi formativi per gli operatori e gli utenti dei servizi e nella ricerca. In quest’ultima la visione dialogica della vita umana ha aperto la porta alla creazione di una piena descrizione degli esseri umani per la prima volta dalla visione dualistica di Cartesio che frammentava gli umani. Questo significa anche sfidare l’eccessiva enfasi sulle descrizioni linguistiche della realtà, come abbiamo fatto all’interno del costruttivismo sociale, e spostarci nella direzione dell’inclusione di partecipazioni incarnate al di fuori del linguaggio parlato come parte essenziale (se non addirittura la più essenziale) delle interazioni terapeutiche.
Naturalmente, tutti sappiamo che al momento questi sviluppi positivi non hanno prodotto alcun cambiamento rimarchevole nei servizi di salute mentale predominanti o in altre discipline, ma è auspicabile che incoraggino noi tutti con maggior determinazione a sentire la voce di chi ha bisogno di aiuto.
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[author title="About the Author"]
Originally published on the Open Dialogue international website here